Stimo molto la mia amica Veronica di Olbia.
Ci separa una mare, ma mi sento tanto vicina a lei, al suo modo di vedere la disabilità, la diversa normalità. Mi sento vicina alle sue parole toccanti, piccole perle lucenti che arrivano al cuore…  “l‘autismo e’ un mondo dal fascino ineguagliabile, a parer mio“.     Pareri che non sempre sono condivisi, proprio perchè personali e perchè rifacenti alla storia di ognuno di noi. Ma Veronica ha un trascorso particolare, e ce lo ha raccontato qui, (e io non mi stancherei mai di leggerla la tua storia…) e si è sentita di dire la sua ad alcuni commenti scaturiti dopo il mio post relativo al Congresso di Ascoli.
Riporto il mio commento:

“Il 4 maggio, al Congresso, si parlava di “scelte di vita”, di come si può uccidere un figlio, in grembo, o solo pensare di non volerlo così com’è… La mia amica Maria ha giustamente commentato “che ogni scelta è personale, e non giudicabile”. Mi associo con quanto lei dice. Nel corso di questi anni ho avuto persone che mi hanno detto che “da loro l amnio è obbligatoria”, quasi volessero giustificarsi con me se poi loro sceglievano per l’ aborto. Io sto imparando a non giudicare, ogni scelta è frutto della propria storia personale, delle tracce passate, della situazione personale, delle paure, e non mi voglio permettere di giudicare una madre “meno che perfetta” se decide per non scegliere un figlio imperfetto. Comprensione del dolore, perchè ci sono scelte difficili da fare ma anche scelte non volute e difficili da portare avanti.”

Sai che ho sete di condividere, e di vedere con il nostro famoso terzo occhio, perciò apprezzo tanto il tuo intervento, perchè edificante per me e per chi vorrà soffermarsi a leggerlo.

Fa pensare… e parecchio… soprattutto perchè è solo una “prima parte”.

guardaconilcuore_abortoCara Daniela,

leggo i tuoi interventi sul blog, in particolare ultimamente quelli che riguardano l’incontro ad Ascoli, al quale sarei voluta essere presente e per il quale mi dolgo per non aver partecipato.

Ho letto qualche intervento riguardante l’ITG (interruzione terapeutica di gravidanza) e visto che, ahimè, me ne intendo volevo darti la mia visione della questione e approfondire un po’ la mia vicenda. Mi preme anche per ciò che concerne il giudizio che da esterni si può elargire e che a volte può essere molto difficile da gestire per noi mamme, che in ogni caso, un figlio lo abbiamo perso.

Tu sai che nel dicembre 2010 ho interrotto una gravidanza alla 21esima settimana per una spina bifida. L’esperienza terribile dell’interruzione volontaria della vita di una feto (non più embrione) completamente formato, con manine,piedini e visino perfetti, che fino a poco tempo prima si muoveva energicamente dentro la tua pancia, è quanto di più tragico e “contro natura” una mamma possa sperimentare.
In questa prima parte vorrei descrivere le emozioni che si susseguono da quando viene elargito il verdetto da parte dei medici all’esecuzione dell’interruzione.
Ricordo che l’ecografista quel giorno ad un tratto sembrava impacciata, affannata, forse tremava. Prima di finire l’ecografia ci disse “c’è un problema”. Già li, mi sembrava di galleggiare per aria come priva di sensi, ricordo che le lacrime scendevano senza controllo ma non singhiozzavo, guardavo il soffitto, mi stavo perdendo e ancora non sapevo nemmeno di cosa si trattava.
Poi ci disse,in gergo medico, che si trattava di spina bifida. Non sapevo cosa fosse, avevo già sentito nominare questa patologia, ma non sapevo davvero,concretamente come si manifestasse. Vidi Antonello che scuoteva la testa, mi disse “è grave, tra le più gravi”.
E allora succede che in un attimo scendi all’inferno. Le domande che ci si pone sono spietate, dolorose, disumane e vergognose.
Si è cosi, vergognose perchè ricordo di aver pensato che non volevo un mostro, volevo un figlio. Pensavo che la mia famiglia si sarebbe distrutta, che mio marito sarebbe fuggito per il peso che questa figlia ammalata avrebbe portato, e poi l’avevo generata io questa malattia, che madre può essere chi produce tanto danno? E il fratello più grande? Dovrà tutta la vita seguire una sorella disabile, la sua sorellina non sarà normale, non correrà con lui, non giocherà con lui, non sarà come lui, forse dovrà vergognarsene.
Poi sopraggiunge la pena intesa come dolore: quanto dovrà soffrire questa bimba? Quanto tempo dovrà passare nelle sale operatorie? Quanto dolore fisico le destina il futuro? Si mette al mondo un figlio per vederlo soffrire? Io non potevo farcela, mi si lacerava l’anima a pensare ad una mia figlia attaccata a tubi, fili per un tempo indefinito.
Pensavo che l’unico modo per proteggerla era non farla nascere. Il pensiero dell’itg si è insinuato immediatamente, subito dopo la diagnosi, subito dopo quell’espressione di Antonello, subito dopo che il medico ci fece capire che scelta in realtà non ce n’era. E’ una specie di istinto di autoconservazione. C’è da dire che in questo i medici non aiutano, la loro indicazione è spesso a senso unico, ma qui dovrei aprire il capitolo”obiezione di coscienza” e non ho  intenzione di farlo.
Poi però iniziano i pensieri lancinanti sull’itg. Sai che ucciderai chi dovresti proteggere, sai che stai vivendo l’esperienza più devastante, sai che dopo nulla sarà come prima. Tornerai a casa e tutto sarà rimasto uguale, le persone e le cose, ma nulla più sarà come prima.
Vuoi che l’inferno finisca in fretta, andare oltre, andare oltre….
A momenti pensi che in fondo, potrebbe essere che le risorse per gestire questa disabilità le hai, e inizi a fantasticare su come cambiare la tua vita in funzione di questa piccola, magari cambiare casa, fare tutto quello che c’è da fare….e gioisci ancora di quella gravidanza, pensi che forse la tua piccola può rimanere con te. E poi eccola che torna…la paura…lancinante, violenta, ingestibile…che peso ha questa paura? Non è un macigno ma ti schiaccia.
E’ cosi che è successo a me. Forse non sarà per tutte uguale, forse per qualcuno sarà di piu o di meno ma la sostanza non cambia. Sono,in fin dei conti,emozioni molto simili a quelle che tu descrivi subito dopo la nascita di Emma.
Io quella volta non ho visto la vita in quella mia bambina, ho visto una malattia.
Oggi, alla luce di ciò che ho vissuto poi, posso dire di non averla salvata ma di averla persa.
Il turbinio di emozioni che si sperimentano lascerebbero spiazzato il piu anziano dei  monaci tibetani.
E’ possibile giudicare tutto questo? O meglio, è corretto farlo? E se si, con quale scopo?
A queste domande mi aspetto risposte sincere, non di quelle che…”il giudizio…sia mai!”

C’è una bella canzone di Branduardi che in una parte dice: “non è da tutti catturare la vita, non disprezzate chi non ce la fa”.