1 minuto.
Un infinito brevissimo minuto.
60 secondi. Che possono sembrare velocissimi o interminabili.
Tanto mi è bastato per perderti, ieri.
Il tempo di uscire, appena dopo di te, dal bagno della spiaggia, (dopo averti detto di restare lì vicino), sciacquarmi le mani e scacciare repentinamente la vocina che mi diceva “muoviti a lavarti le mani… è già sparita“.
No, è proprio qui fuori…
Invece no. Emma non c’è.
Guardo verso le giostrine, quello era il tuo luogo di destinazione fino a poco prima, ma non ci sei.
Guardo il campetto da calcio, dove tuo fratello e tuo cugino giocano con altri bambini. Nemmeno lì.
Guardo la spiaggia di fronte a me, un enorme pezzo di spiaggia con persone in modalità relax. E non ti scorgo.
Mi ascolto dentro. Lo sento, inizia a salire, dalle viscere, contorcendosi, quasi fosse un serpente velenoso che contagia tutto il corpo. Panico.
Svolto verso l’entrata del campeggio, e nel momento in cui varco quella sorta di portale, mi assale un gran senso di angoscia, una sorta di agorafobia, perchè oltre alle 2 stradine principali ce ne sono altre 2, ed è difficile perlustrarle da sola. Mi sento liquefare.
Cerco di stare calma, respirare, ma sento il mio volto contratto in una smorfia di dolore.
Ripenso agli stadi di un processo doloroso.
Shock, dolore, rifiuto, rabbia e accettazione.
A quale sono ormai? Rifiuto?

Non è possibile sia scomparsa… non è possibile abbia perso mia figlia…

Torno sui miei passi e chiamo la mia amica Kalinka che è davanti al campetto di calcio. In realtà non la chiamo, urlo “KalivieninontrovoEmma” con una voce che non sembra nemmeno appartenere a me.
E ora? E ora?
Respiro, inghiotto il panico.
Kalinka va ad avvertire il bagnino, io ritorno in camping.
Perchè so che sei lì bambina mia, forse incuriosita da quello spazio nuovo, forse intenta a seguire la tua ombra allungata dal sole che sta per tramontare.
Corro verso l’entrata del campeggio, facce ovali che mi passano accanto, ignare del mio dolore.
Che pensiero buffo… la loro vita non è intaccata dalla mia sofferenza.
Mi avvicino a qualcuno vestito in divisa, biascicando di aver perso mia figlia, e lui mi fa salire su una macchinina elettrica del campeggio e mi dice che così la troviamo più velocemente.

… la troviamo più velocemente…

Gli appoggio una mano sull’ avambraccio, e non la riesco a staccare, quasi aggrappandomi a quel tocco.
Mi chiede se è a piedi o in bicicletta… quanti anni ha… come è vestita.
Gli rispondo che è in costume, a piedi, ha 6 anni.
Gli devo forse dire della sindrome di Down?
Forse potrebbe essere significativo per comprendere l’entità dell’accaduto?
In pochi secondi siamo di nuovo vicini all’entrata.
I miei occhi che scrutano, il cuore che batte, pensieri assurdi su quanto corre la macchinina su cui sono seduta.

Poi… la vedo.

La vedo che  si dirige di nuovo verso il “portale” della spiaggia, gira a sx, per andare nella direzione in cui suo fratello sta giocando.
Salto al volo, le corro dietro, la chiamo con un filo di voce.
Lei si volta, i suoi meravigliosi profondi occhi verdi, le dita ficcate in bocca a parlare del disagio che sta provando.
Mi inginocchio, l’abbraccio… e piango.
Un pianto singhiozzante senza fine, un abbraccio che la rivuole fare mia.

Emma… Emma… non ti trovavo più! Dove eri andata? Io … io non posso stare senza te bambina mia.

Lei risponde al mio abbraccio stretto, con altrettanto tono. Sento che mi batte la schiena, quasi a rassicurarmi, e le sento pronunciare “mamma sono qui”.

Non so quanti anni di vita ho perso in quel lasso indefinito di tempo… forse 15 minuti?
Non so se devo essere rasserenata dal fatto che Emma ha ritrovato l’orientamento per ritornare da noi.
Non so se essere grata ai miei genitori che mi hanno rassicurato senza minimamente colpevolizzarmi per l’accaduto, perchè sì, sono cose che succedono, a chiunque, e non per questo si è peggiori genitori.
So solo che il pianto ha continuato a ripresentarsi nelle 3 ore successive, condizionandomi nel corpo, spossandomi nella mente.
So solo che per qualche genitore questo genere di storia non ha un così lieto fine.

E questo fa ancora più male.