Spesso mi chiedo quale sia il posto dei nostri figli nella scuola odierna.

Sento di continuo parlare di disagio e battaglie.  Battaglie perchè i nostri figli possano sentirsi inclusi. La classe pollaio, con numeri elevatissimi di alunni; la stanza di sostegno, dove un alunno viene relegato e limitato a fare attività da scuola dell’infanzia; compiti esigui perchè non è pensabile chiedere di più.

In questi anni sto maturando il mio personale pensiero a proposito, non soltanto nei confronti degli alunni con difficoltà, ma nei confronti della scuola stessa. Di un metodo d’insegnamento obsoleto, che non tiene, a mio avviso, conto che i figli di oggi sono cambiati. Un lungo post che scrivo a pezzi, quando mi sento ispirata a fare ordine nei pensieri su un argomento tanto complesso.

Questa lettera è di Loretta Pavan, amica e specialista del metodo Paps, programma di arricchimento pre strumentale. 

“Mi chiamo Loretta Pavan e da tempo mi occupo di bambini e ragazzi con disabilità intellettiva. Questa attività mi ha portato ad entrare in contatto con tante famiglie e con le scuole frequentate dai loro figli. Le storie ascoltate e molte delle osservazioni che ho potuto fare nelle scuole mi hanno lasciata troppe volte perplessa e scoraggiata”.

“Se è vero che la legislazione scolastica italiana pone una specifica attenzione nei confronti degli alunni con disabilità è altrettanto vero che, nella gran parte dei casi che ho potuto osservare, insegnanti e dirigenti troppe volte appaiono non in grado di promuovere quello che la legislazione prevede, cioè un equo accesso dei bambini e dei ragazzi con disabilità intellettiva alle pari opportunità educative e di apprendimento dei compagni”.

“Gli studenti con disabilità si trovano generalmente posti di fronte a proposte didattiche inaffrontabili oppure meramente ripetitive, che non si collocano quasi mai nella loro area di sviluppo prossimale, rendendo il loro progresso cognitivo impossibile. Vengono inoltre generalmente affidati in via quasi esclusiva agli insegnanti di sostegno anziché essere inclusi, con gli opportuni adattamenti, nelle proposte didattiche rivolte all’intera classe”.

“Questo, oltre a ledere la dignità e i diritti dei ragazzi, rende vano il grande e faticoso lavoro sostenuto per raggiungere tali livelli di capacità. Ho deciso di scriverle perché mi rattrista vedere che questi bambini e ragazzi subiscono continuamente gravi ingiustizie senza che qualcuno si occupi di aiutarli davvero. Una di queste ingiustizie ha colpito anche mio figlio, ragazzo quindicenne con sindrome di Down”.

“Nel corso del primo anno di scuola superiore io e mio marito abbiamo chiesto al consiglio di classe di provare, con i dovuti supporti, un percorso che gli desse la possibilità di mettersi alla prova ma abbiamo incontrato solo resistenze da parte di quasi tutti gli insegnanti, resistenze apparentemente riconducibili a una stereotipata tendenza a scegliere il percorso differenziato senza preoccuparsi di valutare possibilità alternative”.

“Abbiamo chiesto di poter avere libri di testo e strumenti per la didattica inclusiva e di ridurre i contenuti, ma ci è stato risposto che in un istituto Professionale i contenuti sono già ridotti.
Certo, a volte vengono attivati percorsi differenziati per lo studente in difficoltà, ma sono troppe volte considerati l’unica proposta didattica percorribile. Possibile che a fronte di una Scuola italiana presentata come modello di integrazione, le esperienze di vera inclusione siano lasciate alla fortuna dei singoli o al buon cuore di qualche insegnante? Sarebbe ora che le cose cambiassero davvero. Non solo a parole”.

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